2- Perché Bush ha acquistato 100 MILA acri in Paraguay. Paura di una nuova "Norimberga"? Dopo il petrolio ora vuole tutta l'acqua del mondo?
Fonte: il manifesto
Dopo il petrolio e il gas ora è il turno dell’acqua.
In Paraguay, terra dei grandi fiumi, c’è l’Acuífero Guaraní, la terza (o la prima) riserva d’acqua dolce del pianeta. Una risorsa strategica scarsa che ha già scatenato gli appetiti. Quelli di Usa e Brasile per esempio.
Ogni secolo ha il suo oro. Il petrolio, l’oro nero per cui si sono combattute le guerre del secolo XX (che non sono finite...), l’acqua, l’oro blu per cui si combatteranno le guerre del secolo XXI.
Il Paraguay lo sa. Uno dei suoi miti fondativi, la Guerra del Chaco contro la Bolivia, fu una guerra per il petrolio fra i nord-americani della Standard Oil of New Jersey dei Rockefeller e gli anglo-olandesi della Royal Dutch Shell, ma in quell’inferno boreale, fra il 1932 e il 1935, i 60-90 mila morti boliviani e i 30-50 mila paraguayani morirono per l’acqua. Di sete, scannandosi fra loro per le poche pozze d’acqua di quel deserto vuoto. La guerra iniziò per il petrolio (che non fu trovato) ma finì per essere una guerra per l’acqua.
Se il petrolio e il gas del Chaco probabilmente si troveranno - a pochi km, Tarija e Santa Cruz, sud della Bolivia, e a Formosa, nord dell’Argentina, ne sono piene -, in Paraguay l’acqua c’è già, sopra e sotto la superficie. Tanta. Dolce e pulita.
Se è vero che non più dell’1% o, secondo l’Unesco, del 2.5% dell’acqua della terra è dolce e potabile, è un fatto che un quarto di quell’acqua si trova nel Cono sud dell’America latina. E il vero paradiso terrestre dell’acqua è qui, in Paraguay, con l’Acuífero Guaraní e i grandi fiumi che scorrono dentro o intorno al paese, come il Paraná e il Paraguay, l’Uruguay e il Pilcomayo, l’Iguazú e il Bermejo, l’Apa e il Negro; con le cateratte di Iguazú e le centrali idroelettriche di Yaciretá (condivisa con l’Argentina) e Itaipú (condivisa con il Brasile, la più grande del mondo).
Un tesoro sepolto Quest’oceano d’acqua dolce forma la Cuenca del Plata - un bacino idrografico di 3.2 milioni di km fra Argentina, Brasile, Bolivia, Uruguay e Paraguay - che, alla confluenza dei fiumi Paraná e Uruguay, diventa poi l’estuario del Rio de la Plata e, oltrepassate Buenos Aires e Montevideo, dopo 320 km sbocca nell’Atlantico.
Il Sistema Acuífero Guaraní (il SAG) della Cuenca del Plata è il cuore pulsante. Una risorsa strategica, ambita da molti. Un immenso giacimento d’acqua dolce sotterraneo che copre 1.2 milioni di km quadrati - 4 volte l’Italia -, il terzo del pianeta o, per altri, il primo perché i suoi limiti precisi non sono ancora conosciuti. 71 mila km quadrati in Paraguay, 59 mila in Uruguay, 840 mila in Brasile a nord - dove si connette con il grande Pantanal del Mato Grosso e di lì con l’Amazzonia -, 226 mila in Argentina a sud - dove arriva fino alla Pampa e di lì potrebbe connettersi con laghi e ghiacciai della Patagonia. Secondo gli esperti la sua ricarica annuale è fra i 160 e i 250 km cubici e «dato che un km cubico equivale a un miliardo di litri d’acqua - dice Ramón Fogel, sociologo del Centro de Estudios Rurales Interdisciplinarios paraguayano -, questa riserva d’acqua può soddisfare le necessità di 360 milioni di persone per 100 anni usando solo il 10% della sua capacità totale». Un tesoro sepolto, scoperto dai brasiliani negli anni ’30 del ’900, tanto prezioso quanto fragile e vulnerabile. La sua ricarica naturale, per via diretta attraverso le piogge o per via indiretta attraverso l’infiltrazione verticale, può essere danneggiata dai residui industriali e domestici scaricati nei fiumi e - il pericolo più attuale - dai pesticidi e agrotossici di cui si fa un uso smodato da quando il fertilissimo est paraguayo, trasformatosi in terra franca dell’immigrazione terrateniente dei brasiliani (i «brasiguayos»), è diventato uno dei paradisi della soia transgenica di cui il Paraguay è il settimo produttore mondiale e il quarto esportatore dopo Usa, Brasile e Argentina.
Anche se solo il 6% dell’Acuífero è in territorio paraguayano e la metà della sua ricarica naturale avviene in Paraguay e, più esattamente, nell’area della Triple Frontera. La regione malfamata fra Paraguay, Brasile e Argentina che gli americani di Washington dicono sia infestata, oltre che dal crimine organizzato - contrabbando di tutto e in particolare di droga e armi, riciclaggio di denaro sporco, traffico di donne e di auto -, dal «terrorismo islamico».
Un’area quindi da tenere sotto stretto controllo militare, meglio se permanente. E, visto che per di più racchiude una «risorsa dell’umanità», da «internazionalizzare». Anche se internazionalizzazione spesso fa rima con privatizzazione. Un ossimoro solo apparente.
«L’insistenza del Dipartimento di Stato Usa sulle attività illecite che si verificano nelle Tre frontiere e sui loro legami con il terrorismo internazionale coincide con gli interessi del potere globale e in questa ottica dev’essere vista: la minaccia terrorista e una risposta a livello militare s’incastrano non solo con la ricerca di nuovi nemici dopo il collasso del socialismo reale, ma innanzitutto con la pretesa di controllare le risorse naturali del pianeta considerate strategiche e infine anche con il tentativo di rendere il più difficile possibile l’integrazione fra i paesi del Mercosud», dice il sociologo Ramón Fogel qui ad Asunción. «Altro che cellule terroriste: gli Stati uniti hanno messo la Banca mondiale e l’Organizzazione degli Stati americani alla testa d’un progetto che si propone di scoprire la consistenza esatta di questa risorsa, assicurarne l’uso sostenibile, evitarne la contaminazione e soprattutto tenerla sotto stretto controllo», diceva qualche giorno fa a Buenos Aires Elsa Buzzone, una storica, specializzata in geopolitica, del Cemida, Centro de militares para la democracia argentina, e ricorda le centinaia di «basi scientifiche» e militari che gli Usa, l’Onu e altri organismi internazionali hanno installato in luoghi sensibili del mondo e dell’America latina - «6 in Argentina e una ventina intorno all’Amazzonia» - ufficialmente per monitorare fenomeni ambientali e rilevare eventuali «esplosioni atomiche». I realtà gli obiettivi veri sono altri. Sia il primo Foro Social de la Triple Frontera, nel 2004 a Puerto Iguazú, il lato argentino delle Tre frontiere, sia il secondo, nel 2006 a Ciudad del Este, il lato paraguayo, li hanno inquadrati con chiarezza: le spinte a militarizzare e internazionalizzare la regione si devono al fatto che gli Stati uniti la considerano primo la porta d’accesso alla conca amazzonica, secondo una delle riserve d’acqua dolce più importanti del pianeta, terzo una miniera straordinaria di ricchezza ambientale e biodiversità che fa gola al big pharma, quarto un ambito territoriale strategico per il controllo dei tre paesi.
I tre assi strategici UsaAnche Adolfo Pérez Esquivel, il Nobel argentino per la pace del 1980 e il fondatore del Serpaj, il Servicio Paz y Justicia, non ha dubbi: «i tre assi» su cui si muovono gli Stati uniti in America latina sono il Plan Puebla-Panamá, il Plan Colombia e la Triple Frontera con l’Acuífero Guaraní e la Cuenca del Plata.
Per gli Usa e forse anche per certi ambienti dell’Onu, l’Amazzonia e (sia pure, per ora, con minore insistenza) la Patagonia devono essere prima che brasiliana e argentina «patrimonio dell’umanità». E anche l’ Acuífero Guaraní, di cui si parla molto meno, dovrebbe esserlo.
Ma che significa «patrimonio dell’umanità»? Le stesse parole per esprimere due visioni del mondo contrapposte. Una che guarda alla grande riserva d’acqua dolce che scorre qui sotto come a una risorsa ambientale comune, compartita fra i 4 paesi che la posseggono, legata al diritto alla vita, anzi un «diritto umano» tout court, come ha detto il presidente boliviano Evo Morales, che quindi «non può essere un business privato». L’altra che considera l’acqua e l’Acuífero una risorsa strategica con un preciso - e crescente - valore economico che può o deve essere privatizzata, come il petrolio e il gas, per farla fruttare e produrre profitti. Fra queste due posizioni inconciliabili ce n’è una terza che forse è quella buona. L’acqua come risorsa dell’umanità ma che, come qualsiasi altra risorsa, appartiene al paese che la possiede, che la può e deve sfruttare e però, ancora con le parole di Morales, «non può diventare mai un affare privato ma deve restare sempre un servizio pubblico».
A qualcuno non sarà sfuggito che a essere alternativamente proclamate «patrimonio dell’umanità» o «merce» sono sempre le risorse degli «altri», dei paesi deboli e periferici. L’acqua preziosa su cui galleggia questo paese non fa eccezione.
Nel ’94 i 4 soci fondatori del Mercosud - Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay - si accordarono per dare vita a un «Proyecto de Protección del Acuífero Guaraní y Desarrollo Sustentable», dotandolo di un modesto budget di 26 milioni di dollari. Poi sull’onda delle privatizzazioni che negli anni ’90 imperversavano in America latina, col pretesto di una mancanza di fondi, affidarono il Progetto alla Banca mondiale. Il 22 maggio 2003, la Banca mondiale e i 4 paesi del Mercosud si riunirono a Montevideo per rifirmare il Progetto del ’94 ma questa volta finanziato dal Global Environment Facilities (con sede a Washington di cui è parte la stessa Banca mondiale, nato nel ’91 per «aiutare» i paesi in via di sviluppo a impiantare programmi compatibili con l’ambiente globale), dal Dipartimento per lo sviluppo sostenibile dell’Organizzazione degli Stati americani (l’Osa, storico strumento di controllo Usa sull’America latina, con sede a Washington), dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (l’Aiea, con sede a Vienna, la stessa che maneggia la crisi con l’Iran) e da organismi ambientali dei governi di Germania e Olanda. Il Progetto si propone di «appoggiare» i 4 paesi dell’ Acuífero per «elaborare e mettere in pratica congiuntamente un comune ambito istituzionale, legale e tecnico per utilizzare e preservare il SAG». Solo per questo? Non ci credono il sociologo paraguayano Ramón Fogel e la storica argentina di geo-politica Elsa Buzzone, e neanche i movimenti, le ong e i gruppi arttivi nella Tripla Frontera, quali la Red Social o il Grito das Aguas: loro hanno chiarissima la convinzione, che il Progetto sotto controllo del Banco mondiale in realtà si proponga altro: «cercare informazioni strategiche per conto delle grandi corporazioni interessate a investire nel mercato dell’acqua e ottenere il controllo privato delle nostre risorse ambientali».
L’acqua dolce è una delle più strategiche, oltrettutto rinnovabile e pulita. Eccesso di sospetto e dietrologia? Certo a pensare male si fa peccato ma spesso - visti i precedenti vicini e lontani - ci si azzecca. E’ sicuro comunque che quando, più presto che tardi, si scatenerà la guerra aperta per l’Acuífero Guaraní, le precedenti «guerre dell’acqua», come quella del 2000 a Cochabamba, sembreranno giochini da playstation. Il Paraguay dei grandi fiumi, periferico, misterioso, chiuso orgogliosamente su se stesso, «un’isola circondata dalla terra ferma», rivelerà allora la sua importanza strategica nascosta. Le avvisaglie ci sono già. In tutta quest’acqua qui sotto sta cuocendo qualcosa di brutto.
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ORO BLU
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idpa=&idc=37&ida=&idt=&idart=3863
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In Paraguay, terra dei grandi fiumi, c’è l’Acuífero Guaraní, la terza (o la prima) riserva d’acqua dolce del pianeta. Una risorsa strategica scarsa che ha già scatenato gli appetiti. Quelli di Usa e Brasile per esempio.
Ogni secolo ha il suo oro. Il petrolio, l’oro nero per cui si sono combattute le guerre del secolo XX (che non sono finite...), l’acqua, l’oro blu per cui si combatteranno le guerre del secolo XXI.
Il Paraguay lo sa. Uno dei suoi miti fondativi, la Guerra del Chaco contro la Bolivia, fu una guerra per il petrolio fra i nord-americani della Standard Oil of New Jersey dei Rockefeller e gli anglo-olandesi della Royal Dutch Shell, ma in quell’inferno boreale, fra il 1932 e il 1935, i 60-90 mila morti boliviani e i 30-50 mila paraguayani morirono per l’acqua. Di sete, scannandosi fra loro per le poche pozze d’acqua di quel deserto vuoto. La guerra iniziò per il petrolio (che non fu trovato) ma finì per essere una guerra per l’acqua.
Se il petrolio e il gas del Chaco probabilmente si troveranno - a pochi km, Tarija e Santa Cruz, sud della Bolivia, e a Formosa, nord dell’Argentina, ne sono piene -, in Paraguay l’acqua c’è già, sopra e sotto la superficie. Tanta. Dolce e pulita.
Se è vero che non più dell’1% o, secondo l’Unesco, del 2.5% dell’acqua della terra è dolce e potabile, è un fatto che un quarto di quell’acqua si trova nel Cono sud dell’America latina. E il vero paradiso terrestre dell’acqua è qui, in Paraguay, con l’Acuífero Guaraní e i grandi fiumi che scorrono dentro o intorno al paese, come il Paraná e il Paraguay, l’Uruguay e il Pilcomayo, l’Iguazú e il Bermejo, l’Apa e il Negro; con le cateratte di Iguazú e le centrali idroelettriche di Yaciretá (condivisa con l’Argentina) e Itaipú (condivisa con il Brasile, la più grande del mondo).
Un tesoro sepolto Quest’oceano d’acqua dolce forma la Cuenca del Plata - un bacino idrografico di 3.2 milioni di km fra Argentina, Brasile, Bolivia, Uruguay e Paraguay - che, alla confluenza dei fiumi Paraná e Uruguay, diventa poi l’estuario del Rio de la Plata e, oltrepassate Buenos Aires e Montevideo, dopo 320 km sbocca nell’Atlantico.
Il Sistema Acuífero Guaraní (il SAG) della Cuenca del Plata è il cuore pulsante. Una risorsa strategica, ambita da molti. Un immenso giacimento d’acqua dolce sotterraneo che copre 1.2 milioni di km quadrati - 4 volte l’Italia -, il terzo del pianeta o, per altri, il primo perché i suoi limiti precisi non sono ancora conosciuti. 71 mila km quadrati in Paraguay, 59 mila in Uruguay, 840 mila in Brasile a nord - dove si connette con il grande Pantanal del Mato Grosso e di lì con l’Amazzonia -, 226 mila in Argentina a sud - dove arriva fino alla Pampa e di lì potrebbe connettersi con laghi e ghiacciai della Patagonia. Secondo gli esperti la sua ricarica annuale è fra i 160 e i 250 km cubici e «dato che un km cubico equivale a un miliardo di litri d’acqua - dice Ramón Fogel, sociologo del Centro de Estudios Rurales Interdisciplinarios paraguayano -, questa riserva d’acqua può soddisfare le necessità di 360 milioni di persone per 100 anni usando solo il 10% della sua capacità totale». Un tesoro sepolto, scoperto dai brasiliani negli anni ’30 del ’900, tanto prezioso quanto fragile e vulnerabile. La sua ricarica naturale, per via diretta attraverso le piogge o per via indiretta attraverso l’infiltrazione verticale, può essere danneggiata dai residui industriali e domestici scaricati nei fiumi e - il pericolo più attuale - dai pesticidi e agrotossici di cui si fa un uso smodato da quando il fertilissimo est paraguayo, trasformatosi in terra franca dell’immigrazione terrateniente dei brasiliani (i «brasiguayos»), è diventato uno dei paradisi della soia transgenica di cui il Paraguay è il settimo produttore mondiale e il quarto esportatore dopo Usa, Brasile e Argentina.
Anche se solo il 6% dell’Acuífero è in territorio paraguayano e la metà della sua ricarica naturale avviene in Paraguay e, più esattamente, nell’area della Triple Frontera. La regione malfamata fra Paraguay, Brasile e Argentina che gli americani di Washington dicono sia infestata, oltre che dal crimine organizzato - contrabbando di tutto e in particolare di droga e armi, riciclaggio di denaro sporco, traffico di donne e di auto -, dal «terrorismo islamico».
Un’area quindi da tenere sotto stretto controllo militare, meglio se permanente. E, visto che per di più racchiude una «risorsa dell’umanità», da «internazionalizzare». Anche se internazionalizzazione spesso fa rima con privatizzazione. Un ossimoro solo apparente.
«L’insistenza del Dipartimento di Stato Usa sulle attività illecite che si verificano nelle Tre frontiere e sui loro legami con il terrorismo internazionale coincide con gli interessi del potere globale e in questa ottica dev’essere vista: la minaccia terrorista e una risposta a livello militare s’incastrano non solo con la ricerca di nuovi nemici dopo il collasso del socialismo reale, ma innanzitutto con la pretesa di controllare le risorse naturali del pianeta considerate strategiche e infine anche con il tentativo di rendere il più difficile possibile l’integrazione fra i paesi del Mercosud», dice il sociologo Ramón Fogel qui ad Asunción. «Altro che cellule terroriste: gli Stati uniti hanno messo la Banca mondiale e l’Organizzazione degli Stati americani alla testa d’un progetto che si propone di scoprire la consistenza esatta di questa risorsa, assicurarne l’uso sostenibile, evitarne la contaminazione e soprattutto tenerla sotto stretto controllo», diceva qualche giorno fa a Buenos Aires Elsa Buzzone, una storica, specializzata in geopolitica, del Cemida, Centro de militares para la democracia argentina, e ricorda le centinaia di «basi scientifiche» e militari che gli Usa, l’Onu e altri organismi internazionali hanno installato in luoghi sensibili del mondo e dell’America latina - «6 in Argentina e una ventina intorno all’Amazzonia» - ufficialmente per monitorare fenomeni ambientali e rilevare eventuali «esplosioni atomiche». I realtà gli obiettivi veri sono altri. Sia il primo Foro Social de la Triple Frontera, nel 2004 a Puerto Iguazú, il lato argentino delle Tre frontiere, sia il secondo, nel 2006 a Ciudad del Este, il lato paraguayo, li hanno inquadrati con chiarezza: le spinte a militarizzare e internazionalizzare la regione si devono al fatto che gli Stati uniti la considerano primo la porta d’accesso alla conca amazzonica, secondo una delle riserve d’acqua dolce più importanti del pianeta, terzo una miniera straordinaria di ricchezza ambientale e biodiversità che fa gola al big pharma, quarto un ambito territoriale strategico per il controllo dei tre paesi.
I tre assi strategici UsaAnche Adolfo Pérez Esquivel, il Nobel argentino per la pace del 1980 e il fondatore del Serpaj, il Servicio Paz y Justicia, non ha dubbi: «i tre assi» su cui si muovono gli Stati uniti in America latina sono il Plan Puebla-Panamá, il Plan Colombia e la Triple Frontera con l’Acuífero Guaraní e la Cuenca del Plata.
Per gli Usa e forse anche per certi ambienti dell’Onu, l’Amazzonia e (sia pure, per ora, con minore insistenza) la Patagonia devono essere prima che brasiliana e argentina «patrimonio dell’umanità». E anche l’ Acuífero Guaraní, di cui si parla molto meno, dovrebbe esserlo.
Ma che significa «patrimonio dell’umanità»? Le stesse parole per esprimere due visioni del mondo contrapposte. Una che guarda alla grande riserva d’acqua dolce che scorre qui sotto come a una risorsa ambientale comune, compartita fra i 4 paesi che la posseggono, legata al diritto alla vita, anzi un «diritto umano» tout court, come ha detto il presidente boliviano Evo Morales, che quindi «non può essere un business privato». L’altra che considera l’acqua e l’Acuífero una risorsa strategica con un preciso - e crescente - valore economico che può o deve essere privatizzata, come il petrolio e il gas, per farla fruttare e produrre profitti. Fra queste due posizioni inconciliabili ce n’è una terza che forse è quella buona. L’acqua come risorsa dell’umanità ma che, come qualsiasi altra risorsa, appartiene al paese che la possiede, che la può e deve sfruttare e però, ancora con le parole di Morales, «non può diventare mai un affare privato ma deve restare sempre un servizio pubblico».
A qualcuno non sarà sfuggito che a essere alternativamente proclamate «patrimonio dell’umanità» o «merce» sono sempre le risorse degli «altri», dei paesi deboli e periferici. L’acqua preziosa su cui galleggia questo paese non fa eccezione.
Nel ’94 i 4 soci fondatori del Mercosud - Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay - si accordarono per dare vita a un «Proyecto de Protección del Acuífero Guaraní y Desarrollo Sustentable», dotandolo di un modesto budget di 26 milioni di dollari. Poi sull’onda delle privatizzazioni che negli anni ’90 imperversavano in America latina, col pretesto di una mancanza di fondi, affidarono il Progetto alla Banca mondiale. Il 22 maggio 2003, la Banca mondiale e i 4 paesi del Mercosud si riunirono a Montevideo per rifirmare il Progetto del ’94 ma questa volta finanziato dal Global Environment Facilities (con sede a Washington di cui è parte la stessa Banca mondiale, nato nel ’91 per «aiutare» i paesi in via di sviluppo a impiantare programmi compatibili con l’ambiente globale), dal Dipartimento per lo sviluppo sostenibile dell’Organizzazione degli Stati americani (l’Osa, storico strumento di controllo Usa sull’America latina, con sede a Washington), dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (l’Aiea, con sede a Vienna, la stessa che maneggia la crisi con l’Iran) e da organismi ambientali dei governi di Germania e Olanda. Il Progetto si propone di «appoggiare» i 4 paesi dell’ Acuífero per «elaborare e mettere in pratica congiuntamente un comune ambito istituzionale, legale e tecnico per utilizzare e preservare il SAG». Solo per questo? Non ci credono il sociologo paraguayano Ramón Fogel e la storica argentina di geo-politica Elsa Buzzone, e neanche i movimenti, le ong e i gruppi arttivi nella Tripla Frontera, quali la Red Social o il Grito das Aguas: loro hanno chiarissima la convinzione, che il Progetto sotto controllo del Banco mondiale in realtà si proponga altro: «cercare informazioni strategiche per conto delle grandi corporazioni interessate a investire nel mercato dell’acqua e ottenere il controllo privato delle nostre risorse ambientali».
L’acqua dolce è una delle più strategiche, oltrettutto rinnovabile e pulita. Eccesso di sospetto e dietrologia? Certo a pensare male si fa peccato ma spesso - visti i precedenti vicini e lontani - ci si azzecca. E’ sicuro comunque che quando, più presto che tardi, si scatenerà la guerra aperta per l’Acuífero Guaraní, le precedenti «guerre dell’acqua», come quella del 2000 a Cochabamba, sembreranno giochini da playstation. Il Paraguay dei grandi fiumi, periferico, misterioso, chiuso orgogliosamente su se stesso, «un’isola circondata dalla terra ferma», rivelerà allora la sua importanza strategica nascosta. Le avvisaglie ci sono già. In tutta quest’acqua qui sotto sta cuocendo qualcosa di brutto.
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