Massoneria. L'unità d'Italia, genocidio e saccheggio.

L’Unità d’Italia

 di M. Pizzuti

A partire del 1850 il Piemonte venne utilizzato dalla massoneria per rovesciare il potere della chiesa e proseguire il processo di globalizzazione profetizzato dagli illuminati di Baviera. 

Per tale ragione vennero unificate con le armi tutte le autonomie locali sotto l’egida di un unico stato unitario. Il governo piemontese, con la legge Siccardi del 1850 e successivi provvedimenti, una volta espropriate le terre ecclesiastiche le rivendette a prezzi stracciati a voraci latifondisti, che in breve tempo ridussero i contadini nella massima indigenza.


Il nuovo stato liberale spazzò via il vecchio ordine sociale soppiantandolo con un potere centrale sbilanciato a favore dei grandi mercanti e dei proprietari terrieri. In quel periodo, inoltre, la guerra aveva lasciato ben trentamila morti sui campi di battaglia di Solferino e San Martino, acutizzando i problemi sociali della classe popolare già afflitta da epidemie e miserie. 

Basti ricordare che nel 1860 l’incidenza delle spese militari piemontesi si attestava sul 61,6 per cento della spesa totale, mentre la percentuale stanziata per le strutture di pubblica assistenza non superava il due per cento. Senza contare che il debito pubblico piemontese in quel periodo sfondò il tetto di un miliardo di allora, ripartito su soli quattro milioni di abitanti. 

Lo stesso Francesco Nitti, pur essendo massone, fu costretto a riconoscere quanto segue: 
“…prima del 1850 era al sud la più grande ricchezza.” (F. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1958, p.7)

La pagina più emblematica dell’epopea risorgimentale fu senz’altro la conquista del sud, un regno rimasto libero e indipendente sin dal 1734, con un re italiano (napolitano) alla sua guida, un popolo prosperoso e una flotta seconda in Europa solo a quella inglese. Il regno del Sud insomma prima degli anni dell’unificazione era un paese florido, che contava ben 472 navi, un debito pubblico minimo e notevoli riserve auree a cui facevano da cornice grandi opere civili e le tasse più leggere d’Europa! 

La miseria toccò il Sud solo dopo il processo di unificazione e comportò l’emigrazione disperata di 14 milioni di meridionali (napolitani e siciliani) tra il 1876 e il 1914. Il Sud cercò quindi di resistere con ogni mezzo al nuovo ordine imposto dalla massoneria, e il Piemonte dovette impegnare 120.000 uomini in una sanguinosissima repressione. 

Quest’ultimo ed esasperato tentativo di resistenza della popolazione venne poi definito brigantaggio dalla massoneria e dai libri di storia. E così tra il gennaio e l’ottobre del 1861, nell’ex Regno delle Due Sicilie si contavano ben 9860 fucilati, 10.604 feriti, 918 case incendiate, sei paesi rasi al suolo, dodici chiese predate, quaranta donne e sessanta fanciulli stuprati e uccisi, 13.629 imprigionati, 1.428 comuni insorti.

Pertanto si trattò di una guerra di rappresaglia contro i ribelli civili del Sud (della Napolitania) che proseguì per anni, provocando un numero superiore di morti a quello raggiunto durante tutte le guerre risorgimentali messe insieme. 

Ma ciò che appare più paradossale in tutto ciò è che alcuni dei principali ideologi del liberismo illuminato piemontese furono proprio dei massoni napoletani: Francesco De Sanctis, elevato nel 1859 al 18° grado del Rito Scozzese, Grado di Cavaliere Rosacroce, Bertrando Spaventa, Pasquale Stanislao Mancini, Silvio Spaventa, Ruggero Bonghi, Camillo De Meis.

Tratto dal saggio: Rivelazioni non autorizzate, di Marco Pizzuti - Macro Edizioni.

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