"Lei non sa chi sono io!"
"IO SONO UN’ISPETTRICE DI POLIZIA E LEI NON E’ NESSUNO" (LEGGE E GIUSTIZIA)
Ho rivisto il filmato di cui parlavo l’altro ieri.
Non è stato difficile, rimbalzato com’era da una rete all’altra, e
ovunque sul web. L’ho rivisto, ancora e ancora: e non soltanto perché
ero affascinata dal disgusto di quei fotogrammi indegni della cronaca di
un paese che si vuole civile; ma perché c’era qualcosa, in quelle
immagini, che mi disturbava profondamente e che pure non riuscivo a
individuare. Poi, tutt’a un tratto, ho capito: l’elemento di ribrezzo
era proprio lì, sotto gli occhi, lungamente. Era — è — la poliziotta. O,
detto in modo più politically correct, l’ispettrice di polizia che presiedeva all’accaduto.
Non mi sono mai piaciute, le donne in divisa (né le divise in
genere). Sono fermamente convinta della complementarietà di maschile e
femminile. Ma proprio per questo sono pure convinta del sussistere di
precise e cospicue differenze di genere che è necessario salvaguardare.
Così, il fatto che una donna accetti o — peggio ancora — desideri
spogliarsi della fluidità creatrice e nutrice tipicamente femminile per
calarsi nella rigidità, propria e figurata, tipicamente maschile mi
suona decisamente strano. Altra cosa, naturalmente, sono le donne che
prendono le armi in casi eccezionali al fianco degli uomini — e la
Storia insegna che sono temibili; del resto, difficilmente qualcuno può
superare o anche soltanto eguagliare in coraggio e ferocia la donna che
si batte per il proprio figlio o il proprio compagno.
Ma ammettiamo pure che una donna arrivi ad arruolarsi non già
nell’esercito in tempo di guerra, bensì in polizia in tempo di pace, per
aver spinto alle estreme conseguenze i concetti di protezione e difesa:
mi chiedo però se la pur nobile e necessaria missione di applicare e
far rispettare la legge contempli le modalità violente e dissennate
che sono state poste in essere a Cittadella l’altro giorno; e come
possa una donna, di fronte allo strazio e alla disperazione di un’altra
donna e addirittura di un bambino, non soltanto restare imperturbabile
ma perfino sfoderare il tristo argomento principe della servilità
(italiana ma non solo): “lei non sa chi sono io” ovvero, nella
fattispecie, «io sono un’ispettrice di polizia e lei non è nessuno»—
apoteosi di quell’abuso di potere che poi, in fondo, sovente altro non è
se non l’ammissione dell’intrinseca debolezza di chi sa di non contare
nulla, da solo, e perciò cerca conforto nel gregge, nel gruppo o
nell’identità fittizia costruita su granitiche
norme/regole/prescrizioni. Dal portiere gallonato al generale che
ostenta medaglie e nastrini, chiunque indossi una divisa si sente
automaticamente investito di quell’alta autorità della quale, di fatto,
non è che un riflesso più o meno pallido — quello stesso che i
prigionieri nella caverna scorgono sulla parete e scambiano per la vera
luce.
:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::Continua qui: http://www.altrainformazione.it/wp/2012/10/17/io-sono-unispettrice-di-polizia-e-lei-non-e-nessuno-legge-e-giustizia/
Articolo originale qui: http://www.alessandracolla.net/2012/10/13/legge-non-e-giustizia/
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